L'ACCOMPAGNAMENTO APTONOMICO DEL MORENTE

di Marie de Hennezel



"Perché avete paura? In fondo, sono io che muoio!"
E' così che una giovane infermiera, che stava morendo per un tumore, si rivolse alle sue colleghe.

"Mi rendo conto che siete in imbarazzo, che non sapete cosa dire, né che fare. Ma credetemi, non ci si può sbagliare se uno dimostra calore. Lasciatevi toccare. E' questo ciò di cui abbiamo bisogno. Possiamo porci domande sul dopo o sul perché, ma non ci aspettiamo veramente una risposta. Non scampatela così, aspettate! Voglio semplicemente sapere se ci sarà qualcuno a tenermi la mano quando ne avrò bisogno. Se noi potessimo solo essere sinceri, ammettere le nostre paure, toccarci l'un l'altro. Dopo tutto, la vostra professionalità ne verrebbe davvero minacciata? Allora non sarebbe forse tanto duro morire all'ospedale... perché uno avrebbe degli amici". (1)

Questa lettera punta il dito su ciò che ci impedisce di essere umani: la paura.
Di che cosa abbiamo paura?
Della morte, di cui dicono sia una cosa un po' sporca, un tabù, soprattutto una cosa che va tenuta nascosta?
Abbiamo paura della paura dell'altro? O più semplicemente paura di aprire il cuore, di essere finalmente autentici, paura di liberare le risorse affettive che dormono in fondo al nostro essere?
Perché alcuni guaritori superano la paura e riescono a essere presenti, a essere all'ascolto di chi sta per morire?
Perché altri negano la morte, accanendosi sul "corpo" del malato e abbandonando la "persona"?

E' lecito pensare che i primi, che sono stati rassicurati del loro essere "buoni", osano vivere la loro sensibilità dinanzi alla sofferenza altrui, mentre invece i secondi, che non hanno mai ricevuto tale conferma affettiva, non possono assumere "affettivamente" il loro ruolo presso i malati morenti. non si tratta di giudicarli, ma di aiutarli e rassicurarli a loro volta. Perché ogni essere umano possiede in potenza questo "extentus effectus" di cui parla Frans Veldman (2).
L'aptonomia, così ci dicono, "apre le strade che portano a un modo di essere più umano".


UNA QUESTIONE DI ETICA

L'invito a una maggiore umanità intorno alla morte e ai morenti non è certo superfluo nel mondo in cui viviamo oggi. E' divenuto anzi un elemento di grande importanza. La questione della morte, che ci si pensi o no, è al centro della nostra vita: la definisce nella sua interezza e le dà il suo giusto prezzo. Inoltre la visione che una società ha della morte, il modo in cui essa tratta coloro che stanno per morire, è di per sé un indice del suo grado di umanità. Dobbiamo ammettere che questo indice è caduto davvero in basso in questa fine del ventesimo secolo, caratterizzato dal rifiuto della morte, dal mito dell'onnipotenza della medicina, e dalla esclusione della morte dalla vita sociale. In effetti viviamo in un mondo in cui "morire bene" significa morire rapidamente, ancor meglio se inconsciamente, e possibilmente in ospedale per non creare troppo disturbo a chi ci è vicino. Del resto, come potrebbe essere diversamente, dal momento che i valori che governano la nostra vita sono l'efficienza, la prestazione ottimale, l'affidabilità e il consumo?
In questa cornice, l'accompagnamento del morente e le cure palliative rappresentano una nuova forma di umanità. Nato da una presa di coscienza di fronte al rifiuto generalizzato della morte e alla sua conseguenza logica, cioè l'incapacità di accettare la morte di un parente o di un paziente, e anche di fronte ai rischi di generalizzazione e banalizzazione dell'eutanasia, il movimento delle cure palliative e dell'accompagnamento dei morenti riunisce medici, infermiere, psicologi e volontari che tentano di restituire umanità alla morte, di "ri-socializzarla", in una parola di reintegrarla nella vita.
Io stessa faccio parte di questo movimento, e lavoro in qualità di psicologa e psicoterapeuta nell'Unità delle Cure Palliative, fin da quando è stata creata. Ed è di questa esperienza che vi parlerò.


ULTIMUM, TACTUM EST

Debbo innanzi tutto raccontarvi un'esperienza che ha rappresentato una vera e propria svolta nella mia vita professionale. Essa si colloca all'origine della ricerca che ho intrapreso e che mi ha portato fino all'aptonomia. Si tratta del primo accompagnamento che ho fatto di un paziente malato di cancro in fase terminale. E' in quell'occasione che ho scoperto tutta l'importanza del contatto fisico. E non è così facile per una psicoterapeuta formata al principio che il paziente non si tocca. Spesso si dice che siano i morenti a insegnarci come accompagnarli. Fu esattamente così.

Ricordo quello che provai entrando nella stanza dove giaceva quell'uomo, piegato dal dolore: un profondo sentimento di impotenza, una perdita immediata dei miei riferimenti di psicologa. Visto a posteriori, ringrazio per quel vuoto che ho sentito, perché mi ha permesso di essere umana e spontanea. Mi sono lasciata condurre, come si suol dire, dal cuore e dall'istinto. L'uomo era disteso su un divano basso. Mi sono inginocchiata al capezzale e ho posato la mano sulla terribile metastasi allo sterno che lui mi indicava come localizzazione del dolore. Ho posto in quel contatto tutta la calma, l'intensità e la presenza di cui ero capace, e sono rimasta là al suo fianco, come sospesa fuori da me stessa. Un quarto d'ora più tardi l'uomo si è calmato e si è addormentato. Quello fu l'inizio di un accompagnamento che sarebbe durato un mese fino alla sua morte in ospedale. Lo andavo a trovare tre volte alla settimana, e mi lasciavo guidare da lui. Non sembrava voler parlare molto, ma piuttosto restare semplicemente con quel contatto, affondare la testa nell'incavo del mio braccio. Restavamo così a lungo. E quando me ne andavo, mi dicevo: "Ma che succede? E' un lavoro da psicologo questo? Non dovrei incoraggiarlo a parlare?" Forse avevo capito allora che l'accompagnamento è proprio questo: lasciarsi guidare dall'altro, adattarsi. Ed era più che evidente che ciò di cui aveva bisogno quest'uomo era di una presenza che non chiedesse nulla, che non si aspettasse nulla, una presenza che io potevo offrirgli tanto più facilmente in quanto la mia affettività - contrariamente a quella della moglie - non era abitata dall'angoscia e dalla paura della perdita, né era appesantita dal fardello di un passato conflittuale.
Benché prima di lasciare la casa mi attardassi sempre un po' con la moglie per evitare che si sentisse esclusa, riconosco che avrei potuto integrarla di più in quello "stare insieme" che Veldman definisce il "consensus haptonomicus". Nonostante questo, l'uomo mi ha scelta come intermediaria, poiché la sera prima di morire mi ha confidato un messaggio d'amore destinato ai suoi: "Li amo tanto" sono state le sue ultime parole. Quando, dopo la morte, le ho riferite alla moglie, lei ha pianto di gioia tra le mie braccia.
Più tardi ho cercato di saperne sempre di più sul contatto, e mi sono imbattuta sull'aptonomia. Questo incontro mi ha dato conferma di quell'approccio che già presentivo giusto, incoraggiandomi a metterlo in pratica sempre più e aprendomi a prospettive sempre più nuove.


UN APPROCCIO BASATO SULL'AFFETTIVITÀ E L'AUTENTICITÀ

Si può immaginare quanto un approccio del genere possa apportare a una persona in fase terminale di malattia. Dopo un lungo percorso di sofferenze fisiche, il malato sopporta anche il peso della cospirazione al silenzio che si è creata intorno a lui, e troppo spesso, purtroppo, anche il tirarsi indietro dei suoi cari, che tendono, appena conosciuto il pronostico, a rifugiarsi nella fuga o in un lutto anticipato.
E' questa la ragione per cui Cecily Saunders, madre delle cure palliative in Europa, ha introdotto il concetto di sofferenza globale. Se il dolore fisico deve essere assolutamente alleviato (l'accompagnamento non può aver luogo se la persona soffre fisicamente), non può tuttavia essere trattato senza tener conto anche degli altri aspetti psicoaffettivi, sociali e spirituali della sofferenza di chi muore.
Le cure palliative rappresentano quindi un terreno sul quale la competenza tecnica e l'apertura e disponibilità affettiva sono intimamente collegate e debbono procedere congiuntamente.
Si capisce dunque che nell'istituzione le cure palliative rappresentino una rivoluzione: le priorità vengono capovolte, perché si tratta di privilegiare la qualità della vita che resta da vivere, piuttosto che prolungarne ad ogni costo la durata. Questo richiede da parte dei medici e degli infermieri di attribuire più importanza all' "essere" che non al "fare", cosa che può avvenire solo se accettano serenamente i loro limiti e riconsiderano la morte come quel fattore ineluttabile su cui si fonda la vita. E' solo a questa condizione che costoro, anziché combattere contro un nemico che non è tale, si potranno rendere disponibili ad accompagnare i loro pazienti nell'ultimo tratto del cammino.
Le cure palliative si basano, inoltre, su una scommessa: la morte non si riduce a una catastrofe biologica; è un "avvenimento" che comporta il vivere. La scommessa dell'accompagnamento è che se il corpo biologico si degrada, l'attività psichica, invece, continua. L'avvicinarsi della morte fisica non porta con sé necessariamente una riduzione della libido vitale, anzi a volte la risveglia. Michel de M'uzan (3), in un articolo intitolato "Il travaglio del trapasso", constata che alcuni pazienti poco prima di morire conoscono un' "accensione del desiderio", un "appetito relazionale", in cui la posta in gioco è tanto più importante in quanto, attraverso tali emozioni, il morente tenta di assimilare tutto ciò che non ha potuto fino a quel momento, "come se cercasse di mettersi al mondo completamente, prima di sparire".
Cerchiamo di capire bene ciò che questo vuol dire: sapere che uno presto morirà comporta un grande sconvolgimento. La parola 'crisi' non basta a descrivere questo grande sconvolgimento interiore, ancor più violento se avviene quando l'individuo è giovane e ha il sentimento legittimo di non aver realizzato a pieno la sua vita. Si capisce anche che la consapevolezza di avere un tempo limitato da vivere, una volta superato il primo choc, viene accompagnata da una trasformazione, da una maturazione interna, legata agli interrogativi sul senso della vita. Abbiamo l'impressione che la persona, più che mai, cerchi il proprio essere.
Che si parli del "processo del morire", di "crisi del morire", di "travaglio del trapasso", si tratta in effetti di tener conto del fatto che un morente resta comunque un vivente, alle prese con un'esperienza nuova, ma con un'anima viva, i cui movimenti possono, fino al momento della morte propriamente detta, raggiungere un'intimità e una bellezza davvero profonde.
Troppo spesso i parenti, persi nel loro dolore e in un lutto anticipato, e i medici, chiusi nel loro senso di fallimento, non sono in grado di vedere o di sentire tutto quello che si può ancora vivere, condividere, scoprire in questi ultimi momenti di vita. Spesso proietteranno le loro stesse sofferenze sul morente, esigendo al posto suo che vengano abbreviati i suoi giorni visto che non c'è più nulla da fare. Troppo spesso si pensa, a torto, che non ci sia più nulla da sperare da un periodo di tempo che viene vissuto solo come attesa della morte. Ora, l'esperienza ci ha mostrato invece che possono avvenire molte cose sul piano dell'affettività. La morte "psichica" anticipa allora la morte "fisica', quando il morente si sente abbandonato, inutile, quando ha l'impressione di aver perso la dignità, la libertà e la responsabilità.


COME SI FA A NON MORIRE PRIMA DEL TEMPO

E' possibile non morire prima di morire, e di entrare da vivi nella morte?
Un approccio autenticamente aptonomico mantiene aperta la domanda, in quanto rispetta la morte come tempo e spazio volti a una nuova esperienza. Sappiamo che quando la sua ricchezza affettiva viene riconosciuta, stimolata e valorizzata fino in fondo, il morente può vivere degli scambi relazionali molto intensi. Questo ovviamente implica che il morente va accompagnato con quelle qualità di presenza e di amore 'contenuto' in cui egli troverà la sicurezza di cui ha bisogno per separarsi. E' senza dubbio molto difficile per un familiare offrire a colui che muore un amore che non sia attaccamento, che non trattenga e che lasci andare verso il suo destino la persona cara. E' il motivo per cui a volte chi muore si distacca dalle persone amate, chiudendosi alla comunicazione con loro, e cercando al tempo stesso il contatto con una persona nuova, generalmente qualcuno che le ha in cura, o una qualsiasi persona benevola, che sarà semplicemente presente, senza aspettarsi niente, senza cercare di trattenerlo. In questo contatto pieno di rassicurazione, i pazienti, sentendosi amati e accettati nel profondo, si potranno sentire liberi di morire. E' questa sottile qualità dell'amore che Kübler-Ross traduce nel suo concetto di "amore incondizionato" e che Frans Veldman chiama "Philia'.
Vediamo ora qualche aspetto dell'approccio aptonomico, in particolare per quanto attiene il fenomeno doloroso, la perdita della dignità, l'angoscia, l'interrogarsi sul senso della morte e gli stati comatosi.


COME AFFRONTARE IL FENOMENO DOLOROSO

La fase terminale nei malati di cancro rappresenta circa il 70% dei casi di fasi terminali dolorose. E' ovvio che l'alleviamento del dolore fisico è il presupposto di ogni accompagnamento aptonomico, poiché il dolore fisico, degradante e avvilente, impedisce ogni forma di comunicazione con gli altri e rende impossibile tale accompagnamento. Ora, il dolore è un fenomeno soggettivo. Non è possibile infatti misurarlo oggettivamente. Questo presuppone quindi dei medici e infermieri che credano a ciò che i pazienti gli dicono quando si lamentano dei loro dolori. Tale atteggiamento, che consiste nel prestare fede alla parola del malato e a lasciarsi guidare da lui, incontra ovviamente parecchie resistenze nel mondo medico, che non è abituato a lasciare che il malato tenga le redini della situazione. Credere a una persona sulla sua parola, quando dice di provare dolore, è già di per sé un comportamento aptonomico. Alcuni malati arrivano da noi sofferenti anche se ricevono già forti dosi di analgesici. Abbiamo notato che dopo qualche giorno trascorso nell'Unità di Cure Palliative, una volta messi a loro agio e sentendosi trattati come "persone", hanno cominciato loro stessi a chiedere che i dosaggi venissero abbassati. Altri persistono nel lamentare dolore, malgrado siano sottoposti ad adeguati trattamenti. Si tratta spesso di persone che rifiutano di lasciarsi avvicinare e curare, considerandolo come una regressione inaccettabile. Sono individui che hanno una forte idea della loro autonomia e respingono ogni forma di dipendenza. Il degrado del loro stato fisico fa nascere in loro un'angoscia che si esprime anche attraverso il dolore. In molti casi un approccio prudente, paziente e affettuoso ha permesso dopo un periodo di tempo abbastanza lungo una serena accettazione della dipendenza e perfino della regressione.
Nel caso di dolori localizzati, l'invito al 'prolungamento' (4) si è rivelato efficace. Mi ricordo in particolare di un uomo che lamentava dei forti dolori al ventre e ai reni. Piegato in posizione fetale, mi è stato facile sedermi sul letto e invitarlo a venire verso di me, mentre io gli toccavo la schiena. Non solo il dolore è progressivamente diminuito, ma in questo contatto pieno di fiducia, l'uomo ha cominciato a parlarmi dal fondo del cuore, raccontando in lacrime che sua madre non l'aveva desiderato e che aveva tentato senza successo di abortire. Questa ferita così antica era ancora cocente in lui. Mi è sembrato che a quest'uomo fosse sempre mancata quella conferma affettiva che lo avrebbe liberato. Non era forse quello che cercava ora in quel contatto con me?


LA QUESTIONE DELLA DIGNITÀ

Tra le perdite più dolorose, troviamo la perdita dell'autonomia della persona, quella della padronanza del proprio corpo e quella della propria immagine, che sono spesso vissute come un attentato alla propria dignità. Spesso sono la causa dell'isolamento in cui si chiude il malato e del suo rifiuto di comunicare. Il degrado fisico, d'altronde, comporta spesso una divisione interiore: il corpo è vissuto come un nemico, un ostacolo, un oggetto. Il malato si sente tradito dal suo corpo; l'unità della sua persona è minacciata.
Di recente un giovane malato di AIDS mi diceva che quando vedeva allo specchio il suo corpo dimagrito, ricoperto di Kaposi, aveva l'impressione che non si trattasse di lui. Viveva una sorta di frattura affettiva.
Il contatto con questi malati è delicato. Sentono tutto e non si può ingannarli, né dar loro false assicurazione narcisistiche. Solamente il contatto affettivo, in cui la persona si sente riconosciuta nella sua propria essenza, nella sua "corporeità animata", permette l malato di "superare" il corpo e di percepire se stesso in modo diverso. E' solo attraverso un incontro in cui l'individuo si sente rassicurato nella propria "essenza" che si può dimenticare di "avere un corpo" sminuito o degradato, perché solo allora si "è se stessi".
Molte richieste di eutanasia sono legate a questo sentimento di perdita della propria dignità. Ma tale sentimento è legato al fattore corporeo e non al modo di essere dell'individuo. Se si ha sufficiente tempo a disposizione, e a condizione che l'ambiente che circonda il malato non gli confermi questo senso di sconfitta, si può indurre la persona, attraverso degli "impulsi rassicuranti", a riconoscere che la sua dignità è legata al suo modo di essere.
Molti pazienti spesso mi dicono che non sopporteranno di diventare infermi e dipendenti, e che quel giorno bisognerà aiutarli a morire. Dietro a questa paura ve ne è un'altra: la paura di non essere più amati se non corrispondiamo più all'immagine che gli altri hanno di noi. Finché si è lontani da quella realtà, si può dire che sia solo una paura fantasma, ma quando si è realmente infermi, realmente degradati nel corpo, allora tutto quanto dipende interamente dagli altri. Se i parenti e gli amici, attraverso lo sguardo, la presenza e il modo di fare, riescono a far sentire al malato che egli viene amato per il suo "essere", se sanno fargli dimenticare la sua degenerazione fisica, perché loro stessi l'hanno dimenticata, dimostrando interesse solo per la sua umanità, per la sua "essenzialità", allora la questione della perdita della dignità non si pone più.
Noi siamo persuasi, dopo tanti anni di lavoro vicino ai morenti, che attraverso il nostro sguardo, la nostra aptonomia e il nostro modo di entrare in contatto con la persona con rispetto e tenerezza, noi possiamo restituire al malato il suo senso di dignità.


FACCIA A FACCIA CON L'ANGOSCIA DELLA MORTE: LA REGRESSIONE

Se la paura della morte in quanto tale si incontra raramente, l'angoscia che accompagna l'incognita della morte sembra essere un passaggio obbligato che, ancora una volta, non bisogna mascherare o far sparire, ma contenere grazie a una presenza affettuosa, al fine di permetterne l'elaborazione e il superamento.
Che cosa si può dare a un essere alle prese con l'angoscia di morire, se non l'intensità della nostra presenza e la nostra fiducia assoluta nelle sue capacità di assolvere fino in fondo questo suo cammino? Certe persone ci si aggrappano, in una stretta fortissima della mano o del corpo. Accogliendo questo contatto disperato, accettando di entrare in quella che M'uzan chiama "l'orbita" del morente, senza paura di perdersi perché si è fortemente se stessi nella propria sicurezza di base, apriamo al morente il percorso verso la sua sicurezza interiore, in modo infinitamente migliore che non lo farebbe un qualsiasi discorso. Una volta ho tenuto una donna stretta contro di me in un momento di disperazione terribile - aveva appena saputo che stava per morire - e poco dopo mi ha detto come aveva vissuto quel contatto: "Ho avuto l'impressione che lei mi stesse trasportando, come una buona nave, attraverso la notte buia". Mi ricordo anche di un malato in preda all'angoscia, che lottava contro il sonno, tenendo gli occhi aperti giorno e notte, aggrappandosi allo sguardo di chi gli stava vicino. Forse, in quegli sguardi, cercava "l'avvenire della sua anima"?
Si capisce l'importanza, in questi momenti di grande disperazione, di essere accompagnati col contatto, con lo sguardo, per tutto il tempo di una difficile attraversata. La conferma affettiva che vi si scopre è a volte una rivelazione: è quello che si cercava da sempre!


L'INTERROGATIVO SUL SENSO DELLA MORTE

La sofferenza spirituale (e non religiosa) riguarda il dare un senso a ciò che viviamo. Sentire la morte che si avvicina induce a porsi la domanda sul senso della propria vita, per che cosa, per chi abbiamo vissuto? Emerge l'interrogativo sui valori dell'esistenza, ed è anche il momento del bilancio della propria vita. Il peccato di Adamo - che consiste nel pensare sempre al domani, senza tenere nel giusto conto le gioie della vita - quante volte l'abbiamo commesso?
Per chi è testimone di questi interrogativi, e noi che accompagniamo i morenti lo siamo sempre, è significativo constatare quanto l'affettività prevalga sull'effettività dell'esistenza. L'essenza di una vita spesso si riduce a tutti quei momenti di felicità, o di "delectatio", nei quali l'individuo ha trovato il coraggio di vivere e di spingersi oltre. Non possiamo dunque dedurre che una conferma affettiva, anche se tardiva, dia all'individuo il coraggio di morire, liberando la sua facoltà d'amare? A chi è infermo, fisicamente degradato, dipendente, resta ancora la facoltà di amare e di essere amato, e il "vissuto di bontà" può arrivare fino al punto di procurare una gioia spirituale. Ma naturalmente questo avviene se al suo fianco vi sono degli esseri umani pronti a vivere questa "corporeità dell'incontro".


IL COMA AGONICO

A volte, quando accompagnammo agonie che sembrano non finire più, pare che il malato aspetti questo ultimo contatto rassicurante e liberatorio, che gli permetterà di abbandonare il corpo e di vivere la morte.
La conferma affettiva può dunque essere data perfino nel coma, attraverso una sorta di veglia, paziente e tranquilla. Che cosa sappiamo del coma? Si parla di affondare nell'incoscienza, di sprofondare nel coma, ma non si potrebbe forse parlare di "risvegliarsi" all'incoscienza? Chi può dire che l'individuo non stia nascendo a un mistero? Non è forse anche un momento privilegiato di contatto sottile da anima a anima? Siamo stati testimoni di pazienti ritornati da questi "abbassamenti di luce" come rappacificati, pronti a partire, come se la loro coscienza fosse emersa trasformata e dilatata da questo tuffo nell'intemporalità, come se l'essere stati vegliati pazientemente o l'aver ricevuto prove d'affetto che non si aspettavano più, o l'essere stati infine rassicurati sul fatto di essere amati, consentisse loro di prendere congedo.

Non dimenticherò mai una donna che ho vegliato per tutta una mattinata, mentre era in stato di coma agonico agitato, e di come pian piano si è calmata mentre la cullavo cantando il suo nome di battesimo, Lucia. Ad un certo punto ha aperto gli occhi, fissando qualcosa in lontananza, sopra di me. Il volto era diventato bellissimo, completamente assorto in quella certa cosa che vedeva lontano, e poi ha smesso di respirare, così, semplicemente.
E' stato detto che chi muore ci fa da maestro. Al loro contatto, in effetti, ciò che vi è di più vivo e di più profondo in noi si apre. Basta dunque dare a questa apertura il suo spazio, e lasciar maturare in noi "l'extensus affectus".
"Il corpo di un uomo dal cuore vivo che riposa sotto terra è preferibile a un mondo intero di viventi dal cuore morto". (SAADI - poeta persiano del XVI secolo)

NOTE:
1) Lettera citata da E. Kübler-Ross in La morte, dernière étape de la croissance, ("La morte, ultima tappa della crescita") - Editions Québec Amérique.
2) "L'extentus affectus" rappresenta un modo di essere aperto, trasparente, senza limiti, tale da permettere una conferma affettiva.
3) Michel de M'uzan, De l'art à la mort ("Dall'arte alla morte") - Gallimard.
4) L'autrice fa qui riferimento a una tecnica da lei introdotta: sia chi riceve il contatto fisico che chi lo offre immagina di prolungarsi al proprio interno e anche all'interno dell'altra persona, in una reciprocità di 'prolungamento' consapevole (NdR).


Traduzione dal francese di Laura Bisogniero

Di Marie de Hennezel sono disponibili in italiano i due ottimi libri: La morte amica e Il passaggio luminoso, quest'ultimo scritto insieme a Jean-Yves Leloup. Entrambi i titoli sono stati pubblicati da Rizzoli.

(da "Buone Notizie", anno 1999 n°2)