AUSCHWITZ |
di Barbara Divita |
Ci vorrà
del tempo perché tutto affiori. Ci vorrà del tempo perché
ogni nuovo sobbalzo del cuore trovi la sua consapevole ragione d'essere, il
suo posto nell'ordinata tela della coscienza. Ora è tutto confuso, immagini,
suoni, ricordi, parole scritte, buoni propositi, complessi di colpa. Non so
bene dove finiscono le mie emozioni e dove inizia la spinta emotiva emotiva
provocata dalle emozioni degli altri.
Partendo per Oswiecim (nome polacco di Auschwitz) cercavo l'esperienza diretta
o almeno tentavo di penetrare il più possibile il mistero del dolore.
L'occasione si era presentata: il ritiro promosso da Roshi Glassman, ritiro
che la Zen Comunity di New York ha voluto chiamare "Bearing Witness",
portare testimonianza.
Il primo incontro con il campo è stato di sera. In realtà per
noi sarebbe stato solo pomeriggio, erano poco più che le 16, ma la notte
al nord, d'inverno, scende presto, e anche l'inverno si presenta presto con
i suoi colori lividi che favoriscono la malinconia. Dunque, primo incontro.
La nebbia permetteva di scoprire solo piano piano le strutture, i capannoni,
le torrette. Già le torrette. Strano pensiero mi attraversò la
mente quando ne vidi una piccolina, di legno, quasi civettuola: "Che carina!
Una casetta per i colombi!" Privilegio delle generazioni postbelliche confondere,
anche se solo per una frazione di secondo, le nicchie delle sentinelle armate.
Block 10... oltre quel cancello con la saggia e agghiacciante scritta "Arbeit
Macht Frei", il lavoro rende liberi...
Una strana gioia si era impossessata di me, la riconoscevo, la mia amica dei
momenti in cui mi sentivo dentro le cose, in sintonia. Ma l'ho detto era una
strana gioia, presto avrei toccato il fondo del dolore, e scoprire che poteva
essercene di più, molto di più. D'ora in poi in questi quattro
giorni di presenza nei padiglioni che avevano ospitato crudeltà, stupore,
paura, sadismo, esaltazione; lungo i binari del treno che avevano condotto i
deportati direttamente dalla normalità della loro vita alla bestialità
delle torture delle quali venivano resi oggetto, e alla morte.
Durante le cerimonie religiose (è stato un ritiro interreligioso), durante
la lettura dei nomi dei caduti, che arrivavano fino in fondo al cuore come un
indelebile mantra. Durante la condivisiione mattutina e serale dell'esperienza,
i pensieri cambiavano. Gli strati del cuore ad essere chiamati in causa diventavano
quelli più profondi, porte che neanche sapevo di aver chiuso, venivano
aperte. E così diventava sempre più superficiale il lieve imbarazzo
che le pubbliche, commosse manifestazioni di dolore mi provocavano e soprattutto
l'ingombrantissima mente con tutte le sue teorie lasciava posto a una presente
e tangibile sensazione di pericolosa similitudine. E con le vittime, è
fin troppo chiaro che ognuno di noi può trovarsi in un attimo, per una
svista del destino a incarnare il ruolo di oppresso.
Tale è l'impermanenza dell'umana condizione. Ciò di cui parlo
è il piccolo sadico, il piccolo frustrato, l'occasionale rabbioso o violento
che si nasconde in noi. Chi, a freddo torturerebbe o ucciderebbe o vivisezionerebbe
un essere vivente? Ma con il verificarsi di condizioni storiche favorevoli o
anche solo con il maturare di motivazioni ideologiche, parascientifiche giustificanti,
ecco che l'insospettabile, quindi perché non noi, si trasforma in aguzzino,
in delatore, in organizzatore di dolore, di morte.
E chissà quando quell'insospettabile aveva cominciato a perdere il centro.
Magari era successo un po' alla volta, talmente piano che non se ne era reso
conto.Cosa vuoi, una concessione oggi, una domani, lo spostamento diventa sempre
più incontrollabile ed ecco che ti trovi nel branco di coloro che giurano
di essere i migliori, e per giunta promettono un mondo migliore, come anche
Goebbels assicurava, e per raggiungere questo nobile scopo ogni mezzo si riconosce
lecito, si sa. A quel punto la belva è già in moto. Tutto è
possibile.
L'olocausto, non voglio dimenticarlo mai, è stato subito da uomini, ed
è stato compiuto da uomini. Su questo devo lavorare. Il centro. Nel lavoro,
in famiglia, per la strada, mai perdere di vista il centro. Il potenziale SS
che è in noi è in agguato. Glassman dice: "Riconoscetelo,
prendetelo con cura e ponetelo sullo scaffale gentilmente, e dialogate con lui".
E' stato inevitabile per me nel climax dell'emozione di questi giorni connettere
l'orrore dell'olocausto di Auschwitz con altri olocausti a me più vicini,
quelli compiuti e subiti dalla mia generazione. Ho perso amici perché
morti o distrutti dalla droga, forse non avevano un ideale che li sostenesse
abbastanza. Ho perso amici perché hanno rinunciato al sogno di una vita
perfetta, di un mondo perfetto, forse il loro era un ideale troppo pesante da
sostenere, e quindi hanno imboccato ogni tipo di scorciatoia. Ho perso amici
che hanno adoperato le loro intelligenze nella coltivazione di un ideale troppo
forte, che ha generato violenza. Una violenza che avrebbe dovuto essere provvisoria
e poi sarebbe venuto il bello.
Desidero meditare su questo mio personale olocausto. Al mio personale "con
me o contro di me", che per quel che mi riguarda è stato solo un
fiume di parole, parole che hanno però intessuto un letto favorevole
alla violenza di fatto. Siamo ancora in molti ad aver vissuto quel periodo,
delle bande armate, per essere chiari, e se ci liberiamo del rapporto di amore
e odio nei confronti degli anni '70, evitiamo prima di tutto che qualcuno, tra
un po', abbia la presunzione di venirceli a spiegare in qualche dibattito televisivo,
magari senza averli conosciuti profondamente, e poi, più seriamente,
è stata la nostra esperienza diretta generazionale sul fronte della violenza,
comunque sia stata vissuta a fatti o a parole, violenza della quale portare
testimonianza, e questo può diventare una ricchezza che non possiamo
lasciarci scappare.
(da "Buone Notizie", anno 1997 n°1)
PASSI DI PACE AD AUSCHWITZ |
di Roberto Mander |
da: Sati n°3/1995 |
PRATICARE LA PACE
Lo scorso dicembre ci siamo incontrati ad Auschwitz in circa duecento, provenienti
da varie parti del mondo, per partecipare alle giornate che hanno preceduto
la partenza del Pellegrinaggio Interreligioso per la Pace e la Vita che si concluderà
il prossimo 8 agosto a Hiroshima, a 50 anni dall'esplosione atomica che segnò
la fine della II guerra mondiale.
Gran parte del tragitto che separa i due luoghi, assurti a simbolo dell'orrore
e della distruttività umana, verrà percorso a piedi, attraverso
territori e paesi che sono stati o sono tutt'ora teatro di conflitti e violenze.
"Camminando" come scriveva uno dei promotori "per prendere coscienza
e riflettere profondamente sulla storia dell'espansionismo militare e per prevenire
la guerra in ogni sua manifestazione. Camminando per impegnarci a creare un
futuro di pace trasformando le nostre menti confuse e impaurite. Fiducia e generosità
sono valori reali dell'umanità, benchè siano ancora da scoprire
nella loro pienezza...". Un pellegrinaggio, dunque, nel senso pieno del
termine in cui la dimensione del lavoro interiore si incontra e trae alimento
da un preciso impegno di pace.
Claude Thomas ( )lo scorso giugno, durante il suo viaggio in Italia, aveva sottolineato
proprio questa qualità della marcia raccontando della sua decisione di
parteciparvi. Si tratta di un'impresa sicuramente difficile da molti punti di
vista, ma anche ricca di preziose occasioni di pace. Il confronto pressoché
quotidiano lungo l'itinerario prescelto, attraverso l'ex Jugoslavia, il Medio
Oriente, la Cambogia, con le sofferenze causate dalla guerra certamente alimenterà
il desiderio di pace e aiuterà ad approfondire la riflessione sul valore
della non violenza. Il vero processo di pacificazione, però, matura con
l'affiorare della capacità di ascoltare, di lasciare spazio all'altro,
al di là del muro divisivo delle proprie emozioni e opinioni. L'incontro
con l'altro -per essere tale- presuppone, allora, che già ci sia in noi
un certo grado di pace. Una mente troppo reattiva, turbata o in preda a forti
emozioni non sarà in grado di vedere la realtà delle cose così
come sono, comunque esse siano.
Claude Thomas ama spesso ripetere che esiste una guerra prima della guerra e
una guerra dopo la guerra, per mettere in luce come le radici della guerra non
affondino solo nelle istituzioni militari o nella produzione bellica, ma siano
saldamente radicate in ciascuno di noi, anche se non sempre immediatamente visibili,
in un gioco di continui e reciproci condizionamenti. Fin da bambini impariamo
la legittimità, la 'normalità' del diritto all'odio, all'avversione
nei confronti di ogni forma di minaccia e, con il passare degli anni, tale tendenza
riceve un numero incalcolabile di rinforzi.
Ognuno di noi porta con sé un carico più o meno massiccio di 'materiale
esplosivo' davanti al quale abbiamo due possibilità: accrescerlo ulteriormente
o iniziare pazientemente a disinnescarlo. Una cultura di pace, dunque, per essere
tale non può prescindere dalla dimensione del lavoro interiore, ovvero
dalla capacità di saper riconoscere la guerra dentro di noi e di imparare
i mezzi abili per fermarla.
DAVANTI ALL'ORRORE
Oswiecim ( ) è oggi una normale cittadina polacca che apparentemente
sembra convivere senza problemi con il suo passato, non ci sono segni di sorta
lungo le vie o sulle case che ricordino che proprio lì venne impiantata
dagli occupanti tedeschi la più efficiente macchina di morte che la storia
ricordi. Solo dei segnali stradali indicano, di tanto in tanto, la direzione
da seguire per la visita ai lager.
Arrivati dall'Italia con quasi un giorno di anticipo, abbiamo preferito trascorrere
una giornata da turisti nella vicina Cracovia, quasi a voler indugiare ancora
qualche ora prima dell'impatto con ciò che resta dei campi di sterminio.
La sera di domenica 4 dicembre, ultimo giorno della festività ebraica
di Hanuccà, in cui si celebra la vittoria della luce sulle tenebre, dopo
una breve introduzione del rabbino E. Gendler sul valore di tale ricorrenza,
tutti insieme, in silenzio, ci siamo diretti verso il campo di Auschwitz 1.
Davanti al cancello di ingresso sormontato dalla famigerata scritta 'Arbeit
macht frei' (il lavoro rende liberi), in un clima di intensa partecipazione
si è svolta la cerimonia dell'accensione delle candele rituali e la recitazione
delle preghiere e dei salmi prescritti.
Abbiamo pregato, chi ad alta voce e chi in silenzio, e abbiamo pianto. E quando,
sotto poche, delicate gocce di pioggia (come impedirsi di pensare ad un segno
di benedizione da parte dei milioni di morti passati attraverso i camini dei
forni crematori?) è risuonata un'antica melodia ebraica, la morsa quasi
fisica di dolore che trasudava dal campo si è allentata, permettendo
a un commosso sentimento di pace e di compassione universale di espandersi tra
la folla.
Nei giorni seguenti, avremmo visitato più volte i campi di Auschwitz
1 e Birkenau e ogni volta la sensazione di orrore e di sgomento si sarebbe fatta
più profonda; era come camminare sull'orlo di un abisso, con la precisa
percezione di trovarsi di fronte non solo ai resti della più efficiente
fabbrica di morte che la storia ricordi, ma all'inequivocabile testimonianza
della capacità distruttiva che può erompere dall'animo umano.
Davanti alle emozioni che quei posti mi suscitavano, ricordo di aver provato
in alcuni momenti una vera e propria forma di ottundimento mentale: mi sembrava
che solo ritraendo la testa in un immaginario guscio avrei potuto reggere una
tale dolorosa tensione. Ma poi, bastava che riaffiorasse il ricordo della pratica,
o si aprissero spazi di consapevolezza, perché sentissi che potevo abbandonarmi
con fiducia al momento presente. Lì, c'era la pace.