AUSCHWITZ

di Barbara Divita




Cracovia 29/11/96

Ci vorrà del tempo perché tutto affiori. Ci vorrà del tempo perché ogni nuovo sobbalzo del cuore trovi la sua consapevole ragione d'essere, il suo posto nell'ordinata tela della coscienza. Ora è tutto confuso, immagini, suoni, ricordi, parole scritte, buoni propositi, complessi di colpa. Non so bene dove finiscono le mie emozioni e dove inizia la spinta emotiva emotiva provocata dalle emozioni degli altri.
Partendo per Oswiecim (nome polacco di Auschwitz) cercavo l'esperienza diretta o almeno tentavo di penetrare il più possibile il mistero del dolore. L'occasione si era presentata: il ritiro promosso da Roshi Glassman, ritiro che la Zen Comunity di New York ha voluto chiamare "Bearing Witness", portare testimonianza.
Il primo incontro con il campo è stato di sera. In realtà per noi sarebbe stato solo pomeriggio, erano poco più che le 16, ma la notte al nord, d'inverno, scende presto, e anche l'inverno si presenta presto con i suoi colori lividi che favoriscono la malinconia. Dunque, primo incontro. La nebbia permetteva di scoprire solo piano piano le strutture, i capannoni, le torrette. Già le torrette. Strano pensiero mi attraversò la mente quando ne vidi una piccolina, di legno, quasi civettuola: "Che carina! Una casetta per i colombi!" Privilegio delle generazioni postbelliche confondere, anche se solo per una frazione di secondo, le nicchie delle sentinelle armate.
Block 10... oltre quel cancello con la saggia e agghiacciante scritta "Arbeit Macht Frei", il lavoro rende liberi...
Una strana gioia si era impossessata di me, la riconoscevo, la mia amica dei momenti in cui mi sentivo dentro le cose, in sintonia. Ma l'ho detto era una strana gioia, presto avrei toccato il fondo del dolore, e scoprire che poteva essercene di più, molto di più. D'ora in poi in questi quattro giorni di presenza nei padiglioni che avevano ospitato crudeltà, stupore, paura, sadismo, esaltazione; lungo i binari del treno che avevano condotto i deportati direttamente dalla normalità della loro vita alla bestialità delle torture delle quali venivano resi oggetto, e alla morte.
Durante le cerimonie religiose (è stato un ritiro interreligioso), durante la lettura dei nomi dei caduti, che arrivavano fino in fondo al cuore come un indelebile mantra. Durante la condivisiione mattutina e serale dell'esperienza, i pensieri cambiavano. Gli strati del cuore ad essere chiamati in causa diventavano quelli più profondi, porte che neanche sapevo di aver chiuso, venivano aperte. E così diventava sempre più superficiale il lieve imbarazzo che le pubbliche, commosse manifestazioni di dolore mi provocavano e soprattutto l'ingombrantissima mente con tutte le sue teorie lasciava posto a una presente e tangibile sensazione di pericolosa similitudine. E con le vittime, è fin troppo chiaro che ognuno di noi può trovarsi in un attimo, per una svista del destino a incarnare il ruolo di oppresso.
Tale è l'impermanenza dell'umana condizione. Ciò di cui parlo è il piccolo sadico, il piccolo frustrato, l'occasionale rabbioso o violento che si nasconde in noi. Chi, a freddo torturerebbe o ucciderebbe o vivisezionerebbe un essere vivente? Ma con il verificarsi di condizioni storiche favorevoli o anche solo con il maturare di motivazioni ideologiche, parascientifiche giustificanti, ecco che l'insospettabile, quindi perché non noi, si trasforma in aguzzino, in delatore, in organizzatore di dolore, di morte.
E chissà quando quell'insospettabile aveva cominciato a perdere il centro. Magari era successo un po' alla volta, talmente piano che non se ne era reso conto.Cosa vuoi, una concessione oggi, una domani, lo spostamento diventa sempre più incontrollabile ed ecco che ti trovi nel branco di coloro che giurano di essere i migliori, e per giunta promettono un mondo migliore, come anche Goebbels assicurava, e per raggiungere questo nobile scopo ogni mezzo si riconosce lecito, si sa. A quel punto la belva è già in moto. Tutto è possibile.
L'olocausto, non voglio dimenticarlo mai, è stato subito da uomini, ed è stato compiuto da uomini. Su questo devo lavorare. Il centro. Nel lavoro, in famiglia, per la strada, mai perdere di vista il centro. Il potenziale SS che è in noi è in agguato. Glassman dice: "Riconoscetelo, prendetelo con cura e ponetelo sullo scaffale gentilmente, e dialogate con lui".
E' stato inevitabile per me nel climax dell'emozione di questi giorni connettere l'orrore dell'olocausto di Auschwitz con altri olocausti a me più vicini, quelli compiuti e subiti dalla mia generazione. Ho perso amici perché morti o distrutti dalla droga, forse non avevano un ideale che li sostenesse abbastanza. Ho perso amici perché hanno rinunciato al sogno di una vita perfetta, di un mondo perfetto, forse il loro era un ideale troppo pesante da sostenere, e quindi hanno imboccato ogni tipo di scorciatoia. Ho perso amici che hanno adoperato le loro intelligenze nella coltivazione di un ideale troppo forte, che ha generato violenza. Una violenza che avrebbe dovuto essere provvisoria e poi sarebbe venuto il bello.
Desidero meditare su questo mio personale olocausto. Al mio personale "con me o contro di me", che per quel che mi riguarda è stato solo un fiume di parole, parole che hanno però intessuto un letto favorevole alla violenza di fatto. Siamo ancora in molti ad aver vissuto quel periodo, delle bande armate, per essere chiari, e se ci liberiamo del rapporto di amore e odio nei confronti degli anni '70, evitiamo prima di tutto che qualcuno, tra un po', abbia la presunzione di venirceli a spiegare in qualche dibattito televisivo, magari senza averli conosciuti profondamente, e poi, più seriamente, è stata la nostra esperienza diretta generazionale sul fronte della violenza, comunque sia stata vissuta a fatti o a parole, violenza della quale portare testimonianza, e questo può diventare una ricchezza che non possiamo lasciarci scappare.

(da "Buone Notizie", anno 1997 n°1)

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PASSI DI PACE AD AUSCHWITZ

di Roberto Mander

da: Sati n°3/1995


PRATICARE LA PACE

Lo scorso dicembre ci siamo incontrati ad Auschwitz in circa duecento, provenienti da varie parti del mondo, per partecipare alle giornate che hanno preceduto la partenza del Pellegrinaggio Interreligioso per la Pace e la Vita che si concluderà il prossimo 8 agosto a Hiroshima, a 50 anni dall'esplosione atomica che segnò la fine della II guerra mondiale.
Gran parte del tragitto che separa i due luoghi, assurti a simbolo dell'orrore e della distruttività umana, verrà percorso a piedi, attraverso territori e paesi che sono stati o sono tutt'ora teatro di conflitti e violenze. "Camminando" come scriveva uno dei promotori "per prendere coscienza e riflettere profondamente sulla storia dell'espansionismo militare e per prevenire la guerra in ogni sua manifestazione. Camminando per impegnarci a creare un futuro di pace trasformando le nostre menti confuse e impaurite. Fiducia e generosità sono valori reali dell'umanità, benchè siano ancora da scoprire nella loro pienezza...". Un pellegrinaggio, dunque, nel senso pieno del termine in cui la dimensione del lavoro interiore si incontra e trae alimento da un preciso impegno di pace.
Claude Thomas ( )lo scorso giugno, durante il suo viaggio in Italia, aveva sottolineato proprio questa qualità della marcia raccontando della sua decisione di parteciparvi. Si tratta di un'impresa sicuramente difficile da molti punti di vista, ma anche ricca di preziose occasioni di pace. Il confronto pressoché quotidiano lungo l'itinerario prescelto, attraverso l'ex Jugoslavia, il Medio Oriente, la Cambogia, con le sofferenze causate dalla guerra certamente alimenterà il desiderio di pace e aiuterà ad approfondire la riflessione sul valore della non violenza. Il vero processo di pacificazione, però, matura con l'affiorare della capacità di ascoltare, di lasciare spazio all'altro, al di là del muro divisivo delle proprie emozioni e opinioni. L'incontro con l'altro -per essere tale- presuppone, allora, che già ci sia in noi un certo grado di pace. Una mente troppo reattiva, turbata o in preda a forti emozioni non sarà in grado di vedere la realtà delle cose così come sono, comunque esse siano.
Claude Thomas ama spesso ripetere che esiste una guerra prima della guerra e una guerra dopo la guerra, per mettere in luce come le radici della guerra non affondino solo nelle istituzioni militari o nella produzione bellica, ma siano saldamente radicate in ciascuno di noi, anche se non sempre immediatamente visibili, in un gioco di continui e reciproci condizionamenti. Fin da bambini impariamo la legittimità, la 'normalità' del diritto all'odio, all'avversione nei confronti di ogni forma di minaccia e, con il passare degli anni, tale tendenza riceve un numero incalcolabile di rinforzi.
Ognuno di noi porta con sé un carico più o meno massiccio di 'materiale esplosivo' davanti al quale abbiamo due possibilità: accrescerlo ulteriormente o iniziare pazientemente a disinnescarlo. Una cultura di pace, dunque, per essere tale non può prescindere dalla dimensione del lavoro interiore, ovvero dalla capacità di saper riconoscere la guerra dentro di noi e di imparare i mezzi abili per fermarla.


DAVANTI ALL'ORRORE

Oswiecim ( ) è oggi una normale cittadina polacca che apparentemente sembra convivere senza problemi con il suo passato, non ci sono segni di sorta lungo le vie o sulle case che ricordino che proprio lì venne impiantata dagli occupanti tedeschi la più efficiente macchina di morte che la storia ricordi. Solo dei segnali stradali indicano, di tanto in tanto, la direzione da seguire per la visita ai lager.
Arrivati dall'Italia con quasi un giorno di anticipo, abbiamo preferito trascorrere una giornata da turisti nella vicina Cracovia, quasi a voler indugiare ancora qualche ora prima dell'impatto con ciò che resta dei campi di sterminio.
La sera di domenica 4 dicembre, ultimo giorno della festività ebraica di Hanuccà, in cui si celebra la vittoria della luce sulle tenebre, dopo una breve introduzione del rabbino E. Gendler sul valore di tale ricorrenza, tutti insieme, in silenzio, ci siamo diretti verso il campo di Auschwitz 1. Davanti al cancello di ingresso sormontato dalla famigerata scritta 'Arbeit macht frei' (il lavoro rende liberi), in un clima di intensa partecipazione si è svolta la cerimonia dell'accensione delle candele rituali e la recitazione delle preghiere e dei salmi prescritti.
Abbiamo pregato, chi ad alta voce e chi in silenzio, e abbiamo pianto. E quando, sotto poche, delicate gocce di pioggia (come impedirsi di pensare ad un segno di benedizione da parte dei milioni di morti passati attraverso i camini dei forni crematori?) è risuonata un'antica melodia ebraica, la morsa quasi fisica di dolore che trasudava dal campo si è allentata, permettendo a un commosso sentimento di pace e di compassione universale di espandersi tra la folla.
Nei giorni seguenti, avremmo visitato più volte i campi di Auschwitz 1 e Birkenau e ogni volta la sensazione di orrore e di sgomento si sarebbe fatta più profonda; era come camminare sull'orlo di un abisso, con la precisa percezione di trovarsi di fronte non solo ai resti della più efficiente fabbrica di morte che la storia ricordi, ma all'inequivocabile testimonianza della capacità distruttiva che può erompere dall'animo umano.
Davanti alle emozioni che quei posti mi suscitavano, ricordo di aver provato in alcuni momenti una vera e propria forma di ottundimento mentale: mi sembrava che solo ritraendo la testa in un immaginario guscio avrei potuto reggere una tale dolorosa tensione. Ma poi, bastava che riaffiorasse il ricordo della pratica, o si aprissero spazi di consapevolezza, perché sentissi che potevo abbandonarmi con fiducia al momento presente. Lì, c'era la pace.