Lo zen in guerra
di Brian Victoria

Presentiamo, attraverso la Premessa dell'autore, il prossimo libro della Rete di Indra che uscirà nella collana ospiti di Sensibili alle foglie in primavera.


Nella primavera del 1970 fui chiamato nella stanza del maestro Zen Niwa Rempo (1905-93), a quel tempo abate del tempio di Eiheiji Betsuin a Tokio. Egli mi informò che, dato il mio status di prete Soto Zen, per di più laureato in Studi Buddhisti all'Università di Komazawa, affiliata alla setta Soto Zen, non era il caso che io partecipassi al movimento contro la guerra in Vietnam, attivo in Giappone. Pur ammettendo che la mia protesta era nonviolenta e si manteneva nel rispetto della legalità, egli disse che "i preti zen non si occupano di politica". E poi soggiunse: "Se non ti atterrai a quanto ti ho detto, verrai privato dello stato sacerdotale.
Io non cessai di operare contro la guerra, e tuttavia non fui espulso dall'ordine. Anzi, arrivai a prendere gli ordini definitivi, e ancor oggi sono un prete buddhista. Devo questo soprattutto alla comprensione e alla protezione del mio defunto maestro, il venerabile Yokoi Kakudò, insegnante di Studi Buddhisti all'università di Komazawa, e maestro Soto Zen. Niwa Rempo divenne il settantasettesimo abate di Eiheiji, uno dei due principali monasteri della setta Soto Zen. Non ci incontrammo mai più.
L'episodio che ho raccontato è diventato uno degli eventi chiave della mia vita, l'elemento intorno al quale ha ruotato la ricerca - durata venticinque anni - di una risposta all'interrogativo su che cosa sia e su quale debba essere il rapporto del prete zen con la società e i suoi membri, con lo stato, con la guerra, con la politica e l'attività sociale. Andando in cerca di risposte a questi interrogativi, mi sono imbattuto negli scritti di un prete della setta Rinzai Zen che era anche uno studioso e all'epoca insegnava all'università Hanazono di Kyoto, il professor Ichikawa Hakugen. Nell'accostarmi all'opera di un uomo che, da accanito sostenitore del militarismo giapponese ne era diventato un critico severo, sentii d'esser come caduto nel proverbiale buco del coniglio, insieme ad Alice nel Paese delle Meraviglie.
Le idee e le persone che ho incontrato in quel regno sotterraneo del buddhismo erano esattamente l'opposto di quelle che si trovavano in superficie. Laggiù, la guerra e l'uccisione venivano descritte come manifestazioni della compassione buddhista. La 'perdita del sé' insegnata dallo Zen significava sottomissione assoluta e incondizionata alla volontà e agli ordini dell'imperatore. E scopo della religione era preservare lo stato e punire chiunque - paese o persona - osasse interferire con il suo diritto di estendere a dismisura il proprio potere.
Già questi sentimenti mi creavano un certo disagio, ma fui ancor più turbato nell'apprendere chi me li aveva suscitati. Ichikawa faceva, per esempio, molte citazioni dagli scritti di D. T. Suzuki sulla guerra. Con quell'aspetto gentile e arguto che aveva negli ultimi tempi, con cui spesso veniva rappresentato, Suzuki viene venerato da molti in Occidente come un vero uomo dello Zen. Eppure egli ha scritto che "la religione, prima di tutto, deve cercare di preservare l'esistenza dello stato", cui segue l'affermazione che i Cinesi sono "pagani ostinati" che il Giappone deve punire "in nome della religione". Hakugen cita anche il maestro Zen Harada Sogaku, che gode di grande apprezzamento nelle opere inglesi di Philip Kapleau, Maezumi Taizan e altri. Nel 1939 egli scrive: " [Se ricevete l'ordine di] marciare, marciate; se ricevete l'ordine di sparare, sparate. Questa è la manifestazione della suprema Saggezza [o Illuminazione]. Zen e guerra sono una cosa sola e l'unità di cui parlo va fino al limite estremo della guerra santa [attualmente in corso]".
Ichikawa dimostra che affermazioni come queste erano state fatte molte volte da personalità di spicco dello Zen, sia laici sia preti, durante gli anni della guerra e prima ancora. Non potei fare a meno di chiedermi come mai si fosse creata una situazione del genere, specie alla luce di quell'affermazione perentoria di Rempo secondo cui "i preti Zen non si occupano di politica". Forse che i milioni e milioni di morti in guerra, giapponesi e no, non avevano a che fare con la politica? Era mai possibile definire obiettivamente "non politiche" le affermazioni in favore della guerra di Suzuki, di Harada e di tanti altri leader dello Zen?
Questo libro rappresenta un primo tentativo di affrontare quesiti tanto complessi e difficili. Il punto focale su cui si basa è la storia del buddhismo istituzionale, in particolare il buddhismo Zen, in un solo paese, il Giappone, nell'arco di tempo che va dal 1868 al 1945. Ho scelto questo periodo non perché io lo ritenga rappresentativo del rapporto storico fra buddhismo Zen e conflitto bellico, ma, al contrario, proprio perché non lo è. In questo, sono stato profondamente influenzato da un passo del libro di William James, La varietà di forme dell'esperienza religiosa (The Varieties of Religious Experience): "Noi impariamo di più, su una cosa, quando la vediamo al microscopio, per così dire, o nella sua forma più accentuata. Questo vale per i fenomeni religiosi così come per qualsiasi altro genere di evento. Pertanto, gli unici casi che presumibilmente daranno risultati sufficienti a ripagare la nostra attenzione saranno quelli dove lo spirito religioso è inconfondibile e radicale". (1)
Non v'è dubbio che, durante il periodo in questione, i rapporti intercorsi fra il Buddhismo Zen e la guerra, il Buddhismo Zen e lo stato, assunsero la forma più estremizzata che si possa immaginare. Nel bene e nel male, anche lo spirito religioso fu inconfondibile e radicale. Proprio per tali ragioni, quindi, questo periodo può essere utilizzato proficuamente come prisma attraverso cui esaminare le questioni più vaste, che rimangono costanti anche quando le circostanze che le racchiudono sono estreme. Di fatto, è possibile affermare che il valore reale dell'etica sociale di qualsiasi religione, incluso il buddhismo, dovrebbe consistere nella sua applicazione a quelle situazioni estreme in cui i sistemi dell'etica secolare tendono a perdere d'autorità. Come può essere messa alla prova la fede o la consapevolezza di chi crede quando tutto va bene?
Sebbene la mia analisi si incentri sugli anni dal 1868 al 1945, considerare questo periodo isolatamente rispetto ai suoi antecedenti storici lascia intendere che un fenomeno come l'approvazione del militarismo giapponese da parte dello Zen può trovare spiegazione soltanto negli eventi del periodo Meiji e in quelli successivi. Di fatto, alcuni osservatori odierni hanno adottato questo punto di vista e sostengono che questo fenomeno non fu altro che un'aberrazione momentanea dello Zen giapponese moderno o dei suoi leader. Ma commentatori più informati, come per esempio Ichikawa Hakugen, mettono in chiaro che lo spirito che unisce lo Zen e la spada ha radici profonde nella dottrina e nella storia del buddhismo Zen. Purtroppo, per limiti di spazio, nel presente studio riuscirò a esporre soltanto una minima parte di questa storia più vasta.
Nel tentativo di dimostrare almeno in parte la complessità della reazione del buddhismo alle iniziative militari del Giappone, ho incluso alcuni paragrafi che parlano sia di buddhisti Zen che si sono opposti alla guerra sia di altri che vi hanno collaborato. Da qualsiasi parte essi abbiano scelto di stare, le loro motivazioni furono assai più complesse di quanto sia possibile spiegare in un solo volume. E naturalmente, la loro vita e le loro azioni non possono essere giudicate esclusivamente sulla base delle posizioni da loro assunte in merito al rapporto fra Zen e stato, Zen e guerra.
(…) Non mi stancherò di ripetere che questo libro non rappresenta niente di più di un primo passo sulla via della comprensione del rapporto del buddhismo e dello Zen con lo stato e con la guerra. Ma, come dice il famoso detto cinese, "Un viaggio di diecimila leghe inizia sempre con un primo passo".

(1) William James, The variety of Religious Experience, p. 48


Il libro "Zen in guerra" di Brian Victoria verrà presentato a Torino
giovedì 7 giugno 2001 alle ore 20.30
presso il Centro Studi
"Domenico Sereno Regis" in via Garibaldi, 13
E-mail: regis@arpnet.it
Telefono 011/53.28.24
Interverrà Roberto Mander.